mercoledì 16 febbraio 2011

GPPM e cultura del piagnisteo

Le democrazie si proponevano di facilitare la "ricerca della felicità" condotta autonomamente da ciascun cittadino... I Padri sapevano bene quanto i nostri obiettivi fossero divergenti e conflittuali, cosicchè era loro intenzione predisporre un ambiente e delle regole del gioco che li rendesse in qualche modo compatibili nella diversità. Ma oggi questa via è stata abbandonata e la crisi dell' Occidente si manifesta con la tendenza delle nostre democrazie a trasformarsi in un "Grande Progetto Politico Morale"... I movimenti pro-welfare e anti-discriminazione, che più di altri incarnano questa deriva, si sono impossessati della democrazia mutandola geneticamente e convertendo lo Stato moderno in una Grande Associazione Benefica avente un fine comune: la guerra alla povertà, all' ignoranza, alle diseguaglianze. Tutto cio' potrebbe essere visto come una nuova religione particolarmente attrattiva per l' intellettuale già in possesso di una mentalità pretesca. Il concetto di "crociata" non è poi così estraneo come vorrebbero i laici coinvolti nel grande progetto di moralizzazione delle masse... Si auspica una futura Armonia e ogni forma di competizione è vista con sospetto poichè rischia di minare l' autostima degradando moralmente i soggetti coinvolti. In passato eravamo chiamati al Rispetto dell' altro e non alla sua Ammirazione, ma ora le cose sembrano cambiare, il rispetto deve mutare in benevolenza... Il GPPM sfrutta poi la tendenza già diffusa a delegare, tipica di un mondo colplesso. In quasi ogni campo noi deleghiamo allo "specialista", ora questo nuovo radicalismo democratico ci chiede di delegare anche la nostra "vita morale" facendo in modo che lo Stato si trasformi in Stato Etico e che i "diritti" diventino "doveri morali" anzichè regole di un gioco dove c' è chi vince e chi perde, anche la "giustizia" perde di senso se non è presentata nelle vesti di "giustizia sociale"... Il GPPM parla di "liberazione" ma intende "liberazione dalle scelte etiche"... le menti più servili sono pronte a rispondere al richiamo deresponsabilizzante e il servilismo seduce molti indebolendo l' individualismo, ovvero il tratto distintivo della civiltà occidentale... emerge la categoria astratta di "soggetto debole"... Il nuovo moralismo politicizzato ci invita costantemente a soccorrere il più "debole", cosicchè l' unica forma di attività politica coltivata nei gruppi sociali consiste nel lamentare la propria debolezza, ma così facendo cala una oppromente "cultura del piagnisteo" proprio laddove la cultura dell' autonomia e dell' autogoverno aveva reso più dinamiche le nostre società...

Kenneth Minogue - The servile mind

Insomma, abbiamo cominciato con il delegare all' idraulico la cura delle tubazioni di casa, abbiamo continuato delegando all' avvocato la difesa in tribunale. Tutto giusto, tutto bene. Senonchè, da qualche decennio, il leviatano democratico - a colpi di welfare ipertrofici ed invasive politiche anti-discriminatorie - pensa sia giunto il momento di delegare al Grillo Parlante Unico la nostra vita morale.

Non ci resta che piangere.

E nella "cultura del piagnisteo" non si puo' nemmeno dire che sia poca cosa.

12 commenti:

  1. Personalmente ho sempre avuto il sospetto che anche i piccoli gesti tipo "delegare all'idraulico le tubazioni di casa" nascondessero oltre a un gesto deresponsabilizzante, un rischio notevole: che ci covasse sempre la fregatura. Per questo delego - certe volte non si può fare altrimenti -, ma cerco di delegare consapevolmente, se possibile controllando il lavoro e instaurando un rapporto dialettico col trumbè (vi assicuro che quest'ultimo passaggio nasconde notevoli rischi e difficoltà intrinseche al concetto di linguaggio).
    Ecco: instaurare un proficuo rapporto dialettico col trumbè per anestetizzare il GPU.

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  2. A proposito della cultura del piagnisteo in particolar modo degli intellettuali nostrani, ieri ho trovato una citazione di Hume, che se stasera ritrovo vi propongo libenter. In soldoni dice che il terreno fertile per la nascita di una grande cultura - si riferiva alla francia di luigi XIV - non è certo uno stato liberale.

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  3. Spero non si equivochi tra cultura del piagnisteo e grande cultura. Scusate il bisticcio fra termini.

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  4. Vlad, penso che la divisione del lavoro sia all' origine del 95% delle nostre ricchezze. D' altro canto, hai ragione. Stando allo specifico del post sembrerebbe che qualche spiacevole effetto collaterale lo abbia avuto. Fai bene a supervisionare gli artigiani, anche se è una bella faticaccia. Meglio di noi lo saprà davide che si è costruito la casa e avrà dovuto seguire i lavori, non lo invidio, ne so qualcosa.

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  5. Puo' darsi, Hitler aveva una biblioteca maestosa.

    Non mi consegnerei al mito della cultura, Don Chichotte in fondo era un rincoglionito. E' un po' come l' innovazione: troppa fa male.

    In ambito culturale preferisco la varietà alla quantità. E in questo senso cosa c' è di meglio che una società liberale.

    Ad ogni modo i tempi moderni sembrerebbero confutare Hume: mai stata tanta abbondanza, sia nella produzione che nella diffusione.

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  6. Dal saggio Of Civil Liberty (la citazione è a sua volta tratta da La Civiltà della Conversazione di Benedetta Craveri):


    La prova migliore del fatto che il sapere fiorisce nei governi assoluti è la Francia, che, pur non avendo mai goduto di libertà costituite, ha portato le arti e le scienze a un grado di perfezione superiore a tutte le altre nazioni. Gli inglesi sono, forse, maggiori filosofi, gli italiani migliori pittori e musicisti; i Romani sono stati più grandi oratori, ma i francesi sono i soli, a eccezione dei Greci, a essere stati insieme filosofi, poeti, oratori, storici, pittori, architetti, scultori e musicisti.....E nella vita di ogni giorno essi hanno portato al massimo grado di perfezione quell'arte che, fra tutte è la più utile e la più gradevole, l'arte de vivre, l'arte della società e della conversazione

    La Craveri riporta poi il fatto che Hume vada oltre, affermando che questo tipo di chiamiamola urbanità tutta francese inducesse una sorta di uguaglianza nei rapporti sociali e cita ancora una lunga catena di dipendenza che va dal principe al contadino, e non è tanto gravosa da rendere la proprietà precaria o da conculcare il modo di pensare della gente, ma è sufficiente a generare in ognuno l'inclinazione a piacere ai suoi superiori e a formarsi su quei modelli che possono ottenere l'approvazione delle persone di cultura e di rango. Ragion per cui la cortesia delle maniere fiorisce più naturalmente nelle monarchie e nelle corti; e quando ciò avviene nessuna delle arti liberali è negletta o disprezzata

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  7. La Craveri conclude mettendo in luce il fatto che tale sorta di eguaglianza fosse in realtà drogata, quindi non facciamoci troppe illusioni.

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  8. Hume è credibile, basta pensare all' importanza del mecenatismo e quindi della ricchezza concentrata in poche mani.



    Ma Hume parla alle soglie della rivoluzione industriale, lì cambia tutto. la ricchezza esplode ovunque e con essa la domanda dei diritti che fa cadere il potere assoluto.



    da allora possiamo dire che i paesi liberi sono ricchi e i paesi totalitari sono poveri. Allora la domanda diventa: nella ricchezza la cultura prospera?



    Qui ci sono due teorie, quella di Baumol e quella di Cowen.



    Baumol: poichè la cultura ha una produttività costante (per cucinare Bach occorrono sempre gli stessi ingredienti, anche nel mondo supertecnologico)) e poichè in una società che si sviluppa la produttività negli altri settori cresce, il peso specifico della cultura è destinato a calare.



    Cowen: la cultura è un bene di lusso e una società ricca ne chiede di più. Inoltre non è vero che la produttività della cultura è fissa (basterebbe pensare alla sua distribuzione).



    Ma oltre alla teoria c' è la pratica. Siccome ieri sera sono stato su google earth a visitare il Prado di Madrid, mi viene da dare ragione a Cowen.



    p.s. sulla home page di cowen parecchi articoli sull' economia della cultura e delle arti (link).

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  9. Data per buona la teoria di Cowen, credi che il peso specifico di ciascun intelletuale sia inversamente o direttamente proporzionale alla produttività della cultura? Io penso sia inversamente prop.

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  10. Non c' è modo di saperlo con certezza, queste cose non si misurano. Io però sono più ottimista.



    Anche Cowen è ottimista, questo il ragionamento:



    1. ognuno di noi riceve una parte del salario in moneta e una parte in natura.



    2. il fatto che io ora posso scriverti fa parte del mio salario in natura.



    3. l' accademico riceve il suo salario in natura quando puo' scegliere la ricerca a cui dedicarsi.



    4. l' artista riveve il suo salario in natura quando si dedica a cio' che lo appassiona veramente incurante delle richieste.



    5. l' abbondanza di pecunia - tipica delle società ricche - rende relativamente più prezioso il salario in natura.



    6. nelle società ricche gli artisti scelgono quindi di commutare il loro salario accrescendo la quota in natura.



    7. nelle società ricche avremo una produzione artistica e intellettuale forse più astrusa ed elitaria ma anche più sentita, più sincera e più originale: è logico che sia così vista la maggior convenienza di un salario in natura. L' avanguardia è un fenomeno tipico delle società prospere.



    Tutto cio' fa il paio con il fatto che molti artisti del passato che noi magari riconosciamo come sublimi, al loro tempo erano considerati nè più nè meno che artigiani di talento.

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  11. come incastrare il 5 e il 6 con la continua richiesta di prebende statali da parte d'intellettuali e artisti nostrani? Forse il sottrarsi alla logica di mercato permette loro di realizzare al meglio le capacità?

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  12. Ma un' entrata (pecuniaria) dall' esterno, puo' essere subito riconvertita.

    Si prende dove si puo' prendere. Il fatto che oggi convenga convertire salrio monetario in salario non monetario è indipendente dal (normale) fatto che si tenti di aumentare il salario complessivo e che nel far questo si battano tutte le strade carrozzabili

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